Al porticciolo di Limeni bibite ghiacciate, creme solari e bottiglie di acqua minerale ondeggiano nell’afa. Giornata fiacca, pochi passaggi.
Anziane signore del Peloponneso, avvolte in scialli e gonne scure nonostante la calura, sorvegliano il bazar improvvisato per i turisti di passaggio sulla banchina, sventolando dei ventagli colorati. Il contrasto delle loro vesti con i colori assetati delle montagne della penisola di Mani sullo sfondo è scioccante.
Quell’invidiabile e invidiato colore cristallino delle acque del Mediterraneo si scontra in modo violento con il giallo argilloso dei pendii scoscesi, dove gli alberi non sono mai nati e dove il riparo dal sole è costituito solo da alcuni ruderi bianchi incrostati. Qui la Grecia ci ricorda di essere una terra aspra, dove lontani dalle località cartolina, dai resort esclusivi e dal mito dell’isoletta ancora incontaminata dove poter attraccare lontano da occhi indiscreti, solo ruvidi e combattenti contadini hanno tenuto duro.
Per citare Patrick Leigh Fermor, “Nulla se non il vuoto Mediterraneo, che si inabissa a profondità enormi, giace tra questo sperone di roccia e le sabbie africane, e da questo punto l’immensa muraglia del Taigeto, le cui cime più alte sbarrano i confini settentrionali del Mani, innalza un nudo e arido inferno di roccia.”
Un paio di turisti stranieri chiedono indicazioni per arrivare ad Aeropoli.
“Allà ti tha kànoume stin Aeròpoli?” Cosa ci andranno mai a fare questi due lassù, pensano le donne. Forse non sanno che la strada per arrivarci non concede distrazioni; continue curve che obbligano a molta attenzione, il catrame quasi scomparso, arrostito dal caldo e dall’incuria. Un territorio complicato, sbattuto dal vento e isolato. E poi cosa si aspettano? È soltanto un gruppo di case in pietra, forse nemmeno 1000 abitanti, lontano dai grandi giri del turismo di massa.
Ad Aeropoli un improvviso temporale estivo affoga il paese e lo rende un gorgheggiare di acqua fangosa che trascina tutto, misto a potenti fulmini che illuminano il paesaggio come una luce strobo intermittente. La temperatura va giù, come i ruscelli formatesi nei vicoli.
I due turisti stranieri appena arrivati non immaginavano di trovare un clima inaspettatamente anglosassone, per cui se ne stanno smarriti in mezzo alla piazza principale in cerca di ispirazione, ma soprattutto di un posto per dormire. Non è il caso di proseguire il viaggio.
“éftasan xénoi tourìstes”: la notizia dell’arrivo degli sconosciuti sta facendo il giro rapidamente. Le anziane sussurrano frasi da dietro le finestre accostate, guardando i forestieri con occhi scuri. Nonostante i tuoni e la pioggia copiosa, ai due malcapitati sembra di sentirlo questo mormorio che li accompagna mentre si stanno dirigendo verso l’unico attracco sicuro: l’osteria aperta là sull’angolo. Uomini in camicia bianca e pantaloni scuri bivaccano sulla soglia; erano lì prima del temporale e lì sono rimasti. Occhi che scrutano.
Alla richiesta dei turisti parte un turbinoso confabulare che sembra non finire mai. Si riunisce una specie di consiglio dei saggi; la lingua greca antica e moderna si fondono in un mix incomprensibile, gesti concitati, i toni si alzano, gente che scuote la testa.
Sembra che tutto scivoli verso un no, ma alla fine, ai forestieri fradici viene trovata non solo la camera per dormire, ma anche una moussakà fumante e un giro di ouzo. Il tutto offerto dalla casa.
Non si chiama compassione ma filo xenia, quella che i Greci considerano ancora oggi una missione. La cosiddetta accoglienza del forestiero, la solidarietà per lo straniero. Xenios, patrono degli ospiti e dei mendicanti. Quando Sparta e Atene combattevano duramente, nemmeno all’acerrimo nemico si rifiutava assistenza in caso di necessità. Tutt’oggi chi non possiede questa dote naturale non è degno di suolo greco; ci si macchia di hybris, la tracotanza, e si perde la cittadinanza morale.
Non male per due turisti non previsti nel Peloponneso meridionale.
Filo xenia, ovvero l’esatto contratto di omo fobia. Non male in un mondo impaurito e chiuso come quello odierno.
VA